editoriale Antonio Incorvaia Inclusione

PURTROPPO NO, L'INCLUSIONE NON è UN DOVERE.

Editoriale di: Antonio Incorvaia

Da alcuni anni, il tema della Diversità sta permeando le intenzioni e le comunicazioni di aziende, movimenti politici e personaggi pubblici. Eppure, la sensazione che si prova a “essere diversi” nella realtà di tutti i giorni è ancora ben lontana dal definirsi «accogliente». E omologarsi continua a rimanere la scelta migliore.

 

Proviamo a immaginare la scena: una qualunque sala riunioni di una qualunque società in un qualunque posto d’Italia, e dieci persone con un qualunque ruolo di cui 9 sostengono la medesima idea e una sola no.

Come si sentirà quella persona? Ma soprattutto: come si comporteranno le restanti nove nei confronti della sua idea?

Sulla carta, da un punto di vista puramente logico, non esiste nessuna ragione fondata affinché quell’idea sia sbagliata, eppure:

  • chi l’ha proposta paventerà che lo sia, o quantomeno nutrirà il dubbio che possa esserlo;
  • chi ha proposto la prima, per contro, le farà credere che lo sia a priori perché tutti gli altri la pensano allo stesso modo.

E quel modo verrà identificato come giusto unicamente perché espresso e condiviso da una maggioranza.

Fuor di metafora, è esattamente questo che succede ogni giorno di fronte alla (cosiddetta) «Diversità». In un momento storico in cui non ostentare “Inclusione” – un po’ come non ostentare “Sostenibilità” fa dormire sonni agitati (indipendentemente dal predicare bene e poi razzolare male, che invece fa sempre dormire sonni fin troppo tranquilli), il sottotesto ricorrente con cui la retorica dell’Inclusione viene abbracciata e tradotta nella realtà quotidiana è «Non importa se sei diverso, ti accettiamo lo stesso».

Ma il punto è che non si tratta di accettare la diversità in quanto tale, bensì l’idea che possa essere altrettanto whatever – positiva, costruttiva, generativa, competitiva, giusta – della (cosiddetta) «Normalità».

L’idea, in sostanza, che chi è o chi pensa “diverso” non sia uno come, sia uno di.

Nel nostro Paese, molte delle minoranze che rientrano nella letteratura dell’Inclusione e della Diversità (gli omosessuali, gli stranieri, i disabili, gli atei e gli agnostici ecc.) contano approssimativamente percentuali tra l’8 e il 15%. Una persona non allineata in mezzo a nove omologhi. A esse vanno poi aggiunte categorie che non possono essere considerate minoranze – le donne, i (cosiddetti) «giovani», gli anziani – ma che vengono ugualmente ritenute meno maggioranza delle altre, soprattutto nei contesti produttivi.

Ebbene: di quante situazioni possiamo dirci testimoni, nell’arco di una giornata, in cui le loro idee e le loro azioni valgono “tanto quanto”? In cui non è un numero ad accreditarne la legittimità ma è la legittimità stessa ad accreditarne il valore? E in cui non subentrano retaggi culturali e bias cognitivi a rifiutarle, a respingerle e/o a sconfessarle (o meglio: a includerle, ma guai ad andare oltre)?

Perché il grande limite attuale della letteratura dell’Inclusione e della Diversità, per come si manifesta nel passaggio dalla retorica alla pratica, è il fondarsi su un senso di dovere anziché su un senso di volere e di potere. Il che, specialmente nella nostra società, la rende un peso, un dipiù, una roba che «Dai, inventiamoci qualcosa anche per loro così sono contenti». Tant’è che poi, se non produce i risultati sperati, si levano ovunque i «Ma cos’altro vogliono, ancora? Non sono mai contenti».

Eppure, per far contenti tutti noi Divergenti, basterebbe molto meno di una campagna di propaganda globale. Basterebbe credere che ciò che siamo, che pensiamo, che diciamo o che facciamo non sia “diverso” ma semplicemente alternativo. E basterebbe ricordarsi che se non fosse stato per quell’unica persona su dieci, cento o mille che ha proposto un’alternativa alla ruota quadrata, a quest’ora forse non avremmo mai avuto nemmeno quella rotonda.

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