intervista Antonio Incorvaia

ANTONIO INCORVAIA: IL POTERE FONDATIVO DELLA NEGAZIONE.

Editor in chief @Divergens

Intervista di: Redazione Divergens.

Se c’è una legge alla quale il mondo della Comunicazione non ammette deroghe dalla Notte dei Tempi, quella è il divieto tassativo di usare il No come trigger di attivazione. In sostanza, si ritiene che un messaggio posto in forma negativa sia controproducente non solo a livello emotivo (insinuando un senso di fastidio, di distacco o di rigetto) ma anche a livello razionale (stimolando un’intenzione opposta a quella che si vorrebbe scongiurare).

Eppure, dovremmo avere ormai imparato che le persone agiscono molto più spesso contro anziché pro; che non sanno cosa vogliono ma sanno perfettamente cosa non vogliono; che preferiscono riscrivere piuttosto che rispettare. Il che, a ben vedere, innesca un conflitto che in sé è generativo per definizione: quello che dovrebbe fare la Comunicazione, semmai, è canalizzarlo verso un obiettivo costruttivo. Come nel caso di Antonio Incorvaia, consulente / formatore / autore di lunga data e nuovo Editor in Chief di Divergens Magazine, che proprio sul potere fondativo del No ha sviluppato il suo percorso professionale e, di riflesso, anche il suo mindset personale (o viceversa).

D.: Partiamo dalle basi: quali sono i valori che ti rendono un autentico Divergens?

R.: Direi sicuramente l’attitudine al Cambiamento e alla Non-Linearità, l’apertura a essere / a pensare / a fare ogni giorno qualcosa di diverso, il rifiuto del concetto di “comfort zone”. Mi piace pensare che la “divergenza” sia l’impegno a combattere attivamente tutto ciò che può renderci mediocri, banali e sterili, piegati – consciamente o inconsciamente – alle logiche dello status quo.

D.: In questo senso, allora, quale pensi che sia oggi il principale “nemico da combattere” per un Divergens?

R.: In primo luogo i retaggi culturali, i bias cognitivi, il pensiero unico e tutti i limiti sociali e culturali che ingabbiano le nostre azioni all’interno di modelli convenzionali. Il principio di “conservazione della specie”, l’idea che la “tradizione” sia un valore inscalfibile e, soprattutto, il concetto pervasivo che «si fa così perché si è sempre fatto così», un vicolo cieco evolutivo e intellettivo da cui rischiamo di non riuscire a tornare più indietro.

D.: In che modo questa visione ispira quotidianamente il tuo lavoro e il tuo stile di vita?

R.: Concedendomi innanzitutto la facoltà di scegliere, che ritengo essere il bene primario che più di ogni altro dovremmo cercare di preservare di fronte all’attuale configurazione di scenario, e di riflesso anche la facoltà di scegliere di No. Ogni qualvolta mi sono trovato di fronte alla prospettiva di un percorso lineare, ho sempre deciso di seguire la strada opposta, reinventandomi sia in termini professionali sia in termini personali. Siamo a tal punto narcotizzati dalla retorica del Sì – della compiacenza, dell’accettazione, della “normalizzazione” – che stiamo completamente sottovalutando l’importanza di saperci liberi del contrario, che invece è l’origine stessa dell’evoluzione.

D.: Ma non c’è il rischio che questa sorta di “anti-routine” venga percepita come una presa di posizione a priori? Qual è il confine tra distruttività e costruttività?

R.: Il confine è sempre l’obiettivo. Un conto è “mettersi di traverso”, un altro è alimentare la possibilità che esista un’alternativa e contribuire a svilupparla. Un conto è essere iconoclasti e rifiutare regole e princìpi per partito preso, un altro è essere critici e rifiutare certe regole e certi princìpi allo scopo di migliorarli. Un conto è ripartire continuamente da zero senza lasciarsi niente alle spalle, un altro è reinvestire continuamente il proprio bagaglio di esperienze puntando a nuovi traguardi. “Distruttivo” è ciò che legittima e rafforza l’esistenza di un establishment; “costruttivo” è ciò che semina il dubbio che quell’establishment sia sbagliato.

D.: Ti è mai capitato che questo ti portasse a rifiutare opportunità di cui poi ti sei pentito?

R.: È difficile che mi penta di avere rifiutato un’opportunità, proprio perché non valuto mai quello che perdo ma quello che posso guadagnare facendo una scelta diversa. Per citare un esempio tra i tanti, appena tre mesi dopo aver firmato il mio primo (e unico) contratto a tempo indeterminato mi sono licenziato e ho deciso di diventare un Libero Professionista. Non posso sapere a cosa esattamente ho rinunciato quel giorno – e ci sono condizioni dell’essere freelance che trovo economicamente e burocraticamente disarmanti – ma so per certo cosa invece ne ho ricavato in ottica di crescita, di evoluzione e di know-how, che una carriera tradizionale in azienda mi avrebbe difficilmente offerto.

D.: Quindi, per concludere, dovremmo imparare a dire più spesso No e meno spesso Sì?

R.: Dovremmo imparare a dire più spesso No di fronte a ciò che ci fa sentire a disagio, che ci fa sentire in trappola, che ci fa sentire persone sbagliate al posto sbagliato nel momento sbagliato. Dire Sì e lamentarsene è autolesionista; dire Sì e pretendere di averne qualcosa in cambio è opportunista. Due tendenze – l’autolesionismo e l’opportunismo – che, non a caso, negli ultimi anni stanno consentendo al perbenismo di riflusso di proliferare indisturbato. Forse, in quel caso, potrebbe essere più semplice e produttivo accettare di dover cambiare. Anzi, rivendicare la libertà di poter farlo.

Redazione divergens

redazione divergens