Arnaldo Funaro

ARNALDO FUNARO: L'UMANITà NON è FANTASCIENZA.

Founder @Mission To Heart.

Intervista di: Valentina Maran.

Arnaldo Funaro è il direttore creativo – oggi client service director della sua agenzia – con cui mi sarebbe piaciuto fare un colloquio. Non so se proporglielo ora sarebbe troppo tardi, ma se siete dei giovani creativi, vi consiglio di andare a stanarlo.
Non so se siete frequentatori del mondo pubblicitario: io ci sono cresciuta e quello che mi ha fatto piacere della chiacchierata con Arnaldo è stata la possibilità di scoprire un direttore creativo illuminato.
Quello che mi ha colpito di Arnaldo è stata l’umiltà e la lunga ricerca del miglioramento di se stesso come essere umano e, vi assicuro, in un mondo di inguaribili narcisisti, è davvero merce rara.

Quando cominciamo a parlare gli dico subito che amo molto la frase che si trova sulla sua copertina LinkedIn: “sottovalutare gli altri significa sopravvalutare sè stessi

Non so se sono umile – mi dice lui – sicuramente una parte di umiltà l’ho dovuta guadagnare a suon di schiaffoni. Nei primi anni della mia carriera avevo completamente travisato l’idea di competizione. Ci volle Esmeralda Spada, che era la mia direttrice creativa, per farmelo capire: dopo la lamentela di un collega lei mi convocò. Mi disse “Arnaldo anche meno perché sei troppo proattivo, sei troppo presente, perché non la smetti di competere con gli altri e inizi a competere un pochino di più con te stesso? Perché ti assicuro che vivrai meglio, e farai anche meglio.”

Arnaldo mi cita poi una serie di fatti, un crescendo delle sue esperienze e delle persone che ha incontrato: ha rivestito ruoli apicali sempre più importanti, in aziende anche molto strutturate (vedi Alitalia) e questo l’ha fatto cambiare.
Non me lo racconta per autocelebrarsi, lo fa per sottolineare come siano stati anni formativi. Ogni ruolo, ogni persona incontrata, è un processo di cambiamento, di introspezione. Come quella volta che, entrato in TBWA come Head of social, si presentò al team con una mail che mostrava l’uomo in Piazza Tienanmen e un testo che diceva:

Io non ho nessuna intenzione di entrare con un carro armato nelle vostre vite, men che meno nei vostri processi. Adesso devo imparare. Tra qualche mese vi dirò quello che ho capito e vediamo se insieme possiamo migliorare.

Mi racconta anche un approccio sensatissimo che propose per la chat di lavoro:
avendo bisogno di usare WhatsApp, aprimmo una chat con me, e poi dissi a tutte quante, -perché erano tutte ragazze a parte uno – di averne una anche tra di loro senza di me, perché avevano bisogno di un luogo dove mandarmi a fare in culo ogni volta che fosse necessario, senza che io fossi lì. Ho detto “l’unica cosa nominatela bene per non sbagliarvi!”.
Ho detto loro, “il mio capo non è quello sopra: il mio capo siete voi. Se non funzionate voi, non funziono nemmeno io!”

Arnaldo mi racconta questo e altri aneddoti che nello sbobino dell’intervista hanno occupato 10 pagine fitte fitte.
Sono costretta a tagliarle per andare al dunque del suo libro, vero centro del nostro dialogo, ma vi assicuro che Arnaldo va conosciuto e frequentato, perché ne vale davvero la pena.
All U Love Is Need – il sonno operoso e la frontiera della fantascienza.

Il suo ultimo libro di intitola “All U Love Is Need” e ha a che fare col mondo della pubblicità.
Arnaldo mi racconta che ama la fantascienza- da piccolo ha letto chili e chili di Urania- o meglio, un intero sacco di iuta di Urania acquistato dal padre grazie a un annuncio su Porta Portese.

Arnaldo mi spiega che quello che ama della fantascienza è l’essere possibile.
Mi racconta la genesi del romanzo:
Andando a ripescare un po’ nel mio Dropbox tra vari file che avevo dove scrivevo appunti mi sono reso conto che questa idea di “All U Love Is Need” era lì, la scintilla era li da parecchi anni e ad un certo punto ho fatto il what if.
“Cosa accadrebbe se potessimo lavorare di notte e essere liberi di giorno?” La tecnologia oggi non esiste, ma secondo me esisterà. Conosco bene il mondo delle agenzie, visto che ci vivo e ci sono cresciuto, mi è sembrato molto divertente, Ho inventato un brand – la pagina su Internet del brand che viene lanciato dentro il libro, l’agenzia, il brief, il brainstorming, naming, insight, processo creativo, e poi dentro ci ho messo pure tutta l’umanità dei personaggi su un’idea che parla di qualcosa di impossibile, che sembra credibile.
In sintesi l’agenzia deve lanciare questo nuovo prodotto che si chiama DreamJob: permette di poter lavorare di notte attaccati alla macchina e liberare la tua vita di giorno in un Metaverso che poi traduce tutto quello che tu pensi in realtà attraverso dei computer. I personaggi dell’agenzia si trovano là dentro a lavorare perché lo devono testare e da lì in poi succede di tutto.

Nei panni di una donna.
Arnaldo si è conquistato anche il parere positivo di Stefano Ferri (se non sapete chi è, dovete subito rimediare) che gli ha detto “sei riuscito a calarti nei panni di una donna e raccontare la vita di una donna: non si percepisce affatto che sia stato scritto da un uomo”.
Chiedo ad Arnaldo come si è sentito dentro quei panni:

Mi sono trovato benissimo, perché fondamentalmente la donna non è così lontana dall’uomo, se l’uomo decide di fare l’essere umano, mettiamola così. Io i problemi delle donne ovviamente li conosco, non li vivo, però li vedo tutti i giorni in 1000 cose.
La protagonista del libro è lesbica e vive tutti quelli che sono i bias culturali, ma anche i suoi stessi pregiudizi nei confronti dei suoi familiari che hanno meno pregiudizi di lei.
È convinta che loro ne abbiano per il semplice fatto che tutti ne hanno.
Si trova a trent’anni con l’orologio biologico che corre come un treno lanciato in corsa, vorrebbe un figlio, sa che in Italia adottare per una come lei sarebbe praticamente impossibile e non sa che fare.

Chiedo ad Arnaldo quanto sia stato complicato scrivere il libro, vista la trama che lavora su più piani.
Lui mi dice che è stato facile fino a tre quarti: sono 130 pagine; è scritto in maniera molto semplice.
Le prime 80 pagine le ho scritte in una settimana, poi sono state ferme due anni lì a galleggiare nel Drive, perché non trovavo il bandolo della matassa. E a un certo punto, mi scrive l’editore, al quale rompevo dicendo “guarda che bella cosa che sto facendo, guardo cosa sto scrivendo” e lui tutto contento mi dice,” ma a che punto siamo?” Io allora gli ho confessato “Guarda Angelo (Guerini), ho un problema con quello che chiamo il terzo quarto, nel senso so dove finisce il libro ma non so come arrivarci. Però adesso che mi hai scritto, sicuramente mi darai lo stimolo per finirlo.”
Invece non riuscendoci, ho scritto un altro libro in tre giorni – è molto piccolo e parla della storia di mio padre quando ha subito le leggi razziali. Mio padre è del 34: racconta la sua vita nei mesi in cui si è dovuto nascondere, dal 16 ottobre del ‘43 fino al 5 giugno del ‘44. E l’ho messo lì da una parte. Devo decidere cosa farci.
Scrivere in tre giorni quel libro mi ha rimesso in marcia sulla scrittura, perché la scrittura in realtà è come andare a correre la mattina: se tu corri una volta al mese, o corri una settimana e per sei mesi non ti muovi, non correrai mai come dovresti. È necessario scrivere tutti i giorni. Dovrei darmi la regola di scrivere almeno un’ora al giorno, che sia una parola o tre pagine deve essere un’ora al giorno tutti i giorni. Se non lo fai, ti rifermi, i personaggi iniziano a morire, si impolverano e diventa un problema. Quindi la difficoltà non è stata tanto scrivere, perché poi quando ho deciso e ho trovato il famoso terzo quarto, sono ripartito da zero e l’ho corretto tutto, sono andato avanti ma è stato veramente trovare il perno che mi facesse andare la storia in quella direzione lì, in una maniera credibile.

Pubblicitari strana gente.
Faccio presente ad Arnaldo che ho sempre il dubbio che il mondo della pubblicità lo capiamo solo noi pubblicitari.
Lui mi rassicura:
Intanto un pubblicitario che non si fa capire non è un pubblicitario, perché il nostro mestiere è rendere comprensibile e bello anche cose poco comprensibili e difficili.
I pubblicitari non si sono mai voluti far capire, secondo me, perché sono si sono sempre considerati un’élite di super cervelli benedetti da Cristo. Non so per quale motivo, quando in realtà sì, facciamo delle cose belle ma non straordinarie, non salviamo vite come ci diciamo spesso, ma in realtà l’80-90% del nostro lavoro è di una banalità sconcertante.
Tutta questa élite io non so dove e perché venga fuori.

Il pubblicitario alla fine è questo: tutti i pubblicitari che ho conosciuto erano comunisti, rivoluzionari, gente buona, brave persone. Però poi lavori per realtà che hanno un impatto reale sull’inquinamento, il consumo, lo sfruttamento di risorse e persone dall’altra parte del mondo.
Ma saremo coglioni oppure dobbiamo essere più onesti e dirci che poi alla fine a noi non è che ce ne frega? Perché se siamo pronti ad accettare tutto, pur di andare a Cannes, evidentemente questa etica non ce l’abbiamo. Non è che lavorare per una ONLUS ci ripara il problema, cioè non è che ci stiamo confessando e invece delle 10 Ave Marie ci hanno dato due campagne per la fame nel mondo.

Però nella prefazione di All U Love Is Need dici anche altro.

Sì in effetti, perché è chiaro che fare un’accusa al mondo del consumo è semplice, ma capire invece quanto questo stia cambiando per migliorarsi è importante.
I brand nascono, da sempre, per riempire un vuoto, un’esigenza. Non nascono su un tavolo di marketing ma da persone che, in ogni epoca, hanno visto un’assenza delle istituzioni, dei governi (anche piccole, come lo spazzolino) e l’hanno risolta.
Senza brand vivremmo in un mondo non solo privo di comodità, ma di beni primari e altri essenziali. I primari non hanno bisogno di essere spiegati; gli essenziali, che sono superflui in base a chi li giudica tali perché appunto non li ritiene centrali per la propria vita, sono quelli che invece contornano le nostre esistenze di gioia, piacere, appagamento. La società cambia e con essa questi beni. Ciò che oggi i brand stanno facendo è unire l’esigenza di beni essenziali a quelle di una governance più sostenibile in ogni senso, dall’ambiente, alla società, fino alle condizioni di lavoro.

Arnaldo è anche autore di un altro bellissimo libro “Un bimbo mi aspetta” dedicato al percorso che ha dovuto affrontare per diventare padre adottivo di Mia, una bimba che viene da lontano. Gli chiedo: se Mia ti dicesse che vuol fare la pubblicitaria?

Saranno problemi suoi! Per me può fare quello che vuole guarda, io quando sarà più grande, se riuscirò lo porterò un pochino a vedere i set, i clienti… comunque sono esperienze divertenti. Di sicuro non le imporrò nulla, anzi: deve fare la sua strada, le sue scelte. Se obblighi le persone tarpi loro le ali e saranno frustrate tutta la vita. È l’ultima cosa che voglio. Se vuole fare la parrucchiera facesse la parrucchiera, non sto scherzando, secondo me non c’è niente male.
Certo, vorrei che studiasse, non tanto per avere la laurea da sbandierare ma perché studiare, leggere e imparare ti rende meno stupido, meno attaccabile e meno circuibile dalla nostra società che devo dire, ce la mette tutta.

Saluto Arnaldo e lo infilo nell’agenda delle persone che mi sarebbe piaciuto incontrare a inizio carriera. Chissà come sarei diventata avendo un maestro come lui.
Forse per me quel tempo è passato, ma ne hanno ancora in abbondanza le giovani leve.
Ve lo dico col cuore in mano: preparate i portfoli e andate a bussare alla sua porta. Magari vi tratterà schiettamente, ma è certo che ne trarrete sicuramente qualcosa di buono.

Io temo mi dovrò accontentare di un caffè.

VALENTINA MARAN

Valentina Maran