Valentina Tamborra

VALENTINA TAMBORRA: "la libertà ha un prezzo alto, ma vale sempre la pena sentirsi liberi"

Valentina Tamborra, fotografa e giornalista

Intervista di: Giada Bellegotti

VALENTINA TAMBORRA: "la libertà ha un prezzo alto, ma vale sempre la pena sentirsi liberi"

«Mi sono sempre vista come una fotoreporter. Non saprei immaginarmi diversamente. È la mia missione nella vita».
Per Valentina Tamborra (www.valentinatamborra.com) – fotografa professionista e giornalista – essere fotoreporter è una vocazione. «Ricordo che già da piccola amavo la fotografia e la scrittura. Quando avevo 8/9 anni il mio mito era Jo di Piccole donne. Poi sono cresciuta e mi sono innamorata di Oriana Fallaci, o forse meglio dire del suo personaggio, al netto delle polemiche. Mi dicevo: “Devo diventare come lei, devo dare voce a quelli che voce non ce l’hanno”», racconta. Determinata lo è sempre stata Valentina, i fatti lo dimostrano. È stata nelle discariche di Nairobi a raccontare la storia dei Chokora, i ragazzi di strada, ha raccolto i momenti di gioie e di dolore dei terremotati delle Marche. Ha realizzato il suo sogno e di girare il mondo per dimostrare che le frontiere sono punti di scoperta, di incontro e non barriere, non è mai stanca. Nel suo ultimo lavoro, Skrei, è andata a scoprire come vive la tribu Sami: «Mi sono spinta fino all’Artico pensando di trovare un luogo di pace, ma come sempre, quando si superano i confini, si scoprono verità rimaste fino a quel momento sommerse».

Valentina, che cos’è per te il confine?
«Per me il confine è semplicemente un luogo di passaggio. Lo intendo come frontiera, un luogo d’incontro, non una barriera. Mia mamma era delle valli del Natisone, zona di confine tra Italia e Slovenia. Per me i confini, le frontiere, erano semplicemente la normalità. Poi, crescendo, mi sono resa conto che per tante persone i confini sono sinonimo di divergenza e non di arricchimento, come era sempre stato invece per me».

Qual è l’obiettivo che persegui con il tuo lavoro?
«Attraverso i miei reportage voglio far passare il messaggio che le differenze non devono fare la differenza. Nel mio lavoro non manca mai l’aspetto documentale e documentario, però cerco di lavorare sempre a un piano più alto: voglio che grazie ai miei lavori le persone si incontrino, scambino idee, si confrontino. Questo per me è superare i confini».

Con il progetto Skrei ti sei spinta fino all’Artico per conoscere da vicino il popolo Sami: perché?
«Avevo bisogno di capire se ci fosse un luogo di confine in cui la differenza non facesse quella differenza di cui accennavo sopra. L’Artico mi sembrava la quintessenza di quello che potesse essere un confine sereno».

Lo è?
«In parte. La popolazione Sami si è vista strappare l’identità, è stata ridotta al silenzio, ed è minacciata anche dal cambiamento climatico, del quale siamo tutti responsabili. L’Artico era il mio confine sicuro, eppure mi ha svelato anche lui un’anima nera. Il mio compito ora è quello ora di dare voce a questo popolo che voce non ha».

C’è un momento in cui hai vissuto la tua disruption, ovvero un incredibile cambiamento?
«Vivo una disruption ad ogni viaggio. Se si viaggia davvero non può che essere così, perché qualcosa si modifica dentro di te. Ogni viaggio è una svolta, ad ogni storia forte, ogni volta che documento una realtà complessa e drammatica, io cambio».

Non hai paura di raccontare quelle verità che sono oltre i confini?
«Sì, sempre. Ma non perché ho paura dei confini: ho paura perché la verità può fare male, può scatenare reazioni forti. E chi si spinge oltre i confini è sempre a rischio di fraintendimenti. Io però mi considero una donna libera: la libertà ha un prezzo alto, ma vale sempre la pena sentirsi liberi».

GIADA BELLEGOTTI

giada bellegotti fdo