Percorsi circolari con un'idea in mezzo.

Dall'arte del patchwork alla geometria proiettiva.

Articolo di Riccardo Bovetti (Partner, EY)

Percorsi circolari con un'idea in mezzo.

Lunedì 28 giugno 2021 mi è capitato di fare l’introduzione (cosa peraltro non nuova, visto che accade da almeno 3 anni) ad un evento di FDO (For Disruptors Only) in una location particolare e su di un argomento sicuramente non banale.

Vista da fuori suona un po’ strana: un consulente, in una galleria d’arte, che apre un evento dedicato alla disruption nella moda. Quanto meno avrebbe il sapore della classica barzelletta d’antan che contrapponeva, usando i tratti caratteristici dei nazionalismi dell’Europa ante unione, stigmi e dogmi. Poco servirebbe specificare, articolare e dettagliare il soggetto della barzelletta: chi è consulente, di professione, ma è informatico, di formazione – e quindi logico/matematico di estrazione, ma che durante il lockdown è diventato imbrattatore di superfici nel (poco) tempo libero e da sempre artigiano delle filosofie ed in particolare dell’etica.

Sempre nello spazio (o nel dominio funzionale, meglio) del ridicolo ci troveremmo.

Quanto meno fino al momento in cui è stato possibile mettere a fuoco la pietra angolare di questa coincidenza di ambiti diversamente connessi: il patchwork (d’altro canto, mettere insieme così diverse diversità non sarebbe stato possibile altrimenti … A ben pensarci).

Il patchwork, il cui significato è letteralmente “lavorare con le pezze”, è una tecnica di ricamo che consiste nell’assemblaggio di pezzi di stoffa (originariamente, poi anche di altro) al fine di creare un disegno di dimensioni (chiaramente) uguali alla somma delle parti ma di significato artistico altrettanto chiaramente maggiore.

E proprio questo “valore aggiunto di significante” è stato quello che ha permesso a questa tecnica di diventare una vera e propria Forma d’arte. Arte il patchwork lo diviene grazie ad una delle sue applicazioni più famose, risalente alla seconda metà del XVI secolo, che è la ‘trapuntatura patchwork’: vere e proprie coperte, assemblate con scampoli di stoffa o vecchie coperte sgualcite che venivano lavorate per formare addirittura il corredo di nozze delle giovani spose (mi auguro che qualcuno sia abbastanza “agée” – o per lo meno abbastanza agée quanto lo sono io per ricordarsi delle coperte delle nonne… Inconsapevoli, sia per chi le faceva che per chi ne fruiva forme d’arte di cui di quella della mia nonna Maria ricordo soprattutto un inserto di un quadrato in pelliccia rigorosamente di coniglio che passavo il tempo ad accarezzare pelo e contropelo mentre cercavo di addormentarmi quando mi fermavo a dormire da lei). L’arte del patchwork trova terreno fertile tra le avanguardie artistiche del ‘900 e diventa nuovamente “di moda” (in una accezione differente ma in quel susseguirsi continuo di corsi e ricorsi che rendono novità ed innovazione spesso, a torto, sinonimi) grazie al futurismo.

Giacomo Balla arriva a parlare di NUOVE REGOLE DELLA MODA FUTURISTA, immaginando un abito di tutti i giorni che doveva poter funzionare secondo le regole del patchwork e cambiare aspetto continuamente grazie ad una serie di elementi in tessuto e colori diversi da poter usare proprio come dei pezzi di un collage che diventava arte indossabile “alla moda”.

Il patchwork è di fatto un ‘collage’ di stoffe e questo riafferma la contiguità e l’indistinguibilità con lo spazio artistico con quello della moda ed introduce un grado di separazione importante perchè sia per ragioni storiche che tecniche. Innanzitutto anche il collage fa il suo debutto all’inizio del ‘900 sempre grazie al futurismo italiano ed in secondo luogo perchè “tecnicamente” esso consiste nella giustapposizione di diversi materiali anche non strettamente inerenti la produzione artistica come giornali, foto, tessuti, materiali solidi, vernici, ma anche oggetti della quotidianità. Una decontestualizzazione quindi che apre la strada a notevoli ambiti interpretativi. Quello su cui vorrei soffermarmi in questo ambito è quello che ci lega al dominio della verità… Che, come tutti spero condividiate, non può che essere quella matematica (le altre, come ho avuto modo di raccontare in una altra delle mie introduzioni in FDO ed in un articoletto non sono che pallide e meno convincenti autoaffermazioni).

La base di partenza del collage sono figure geometriche… Ergo il collage è un’operazione che potremmo interpretare come di geometria proiettiva. La geometria, una delle branche fondamentali della matematica, definisce nell’ambito della geometria proiettiva diversi modelli di interpretazione del contesto (contenuto – semantica) proiettato… Costruiti in funzione di parametri deterministici (in soldoni la distanza dal soggetto e l’angolo di intersezione tra i piani sui quali avviene la proiezione).

Andiamo da geometrie metriche (che rappresentano fedelmente le forme proiettive perchè sono visioni dall’infinito di proiezioni tra piani paralleli) a geometrie simili o affini che distorcono la percezione che otteniamo del proiettato (ovviamente senza modificarlo o senza intervenire su di esso)… Questo ragionamento applicato al collage sintetizza una visione delle forme geometriche usate per “rendere” il collage come una proiezione di una idea (quella dell’artista) che viene resa (percepita) differentemente solo per via di un mutamento del contesto… Non per via di un cambiamento del proiettato.

E di decontestualizzazione in decontestualizzazione torniamo grazie al collage all’arte… Con la certezza che il gesto artistico, per quanto istintivo, si poggi su basi che hanno la solidità granitica della verità ultima … Matematica. Il collage come applicazione della geometria proiettiva all’idea creativa dell’artista… Non male come volo pindarico, o no?

Il collage, come espressione artistica, va oltre a questi schemi rigidi e viene oggi considerato ‘ibrido’ perchè permette a più tecniche espressive diverse tra loro di potersi incontrarsi nella sua applicazione.

Quest’azione di giustapposizione o accostamento di materiali di vario tipo, non è solo la definizione di collage, ma ci permette di entrare a piè pari anche nel campo della disruption digitale. Accostare “creando” (ovverosia facendo design) a partire da pezzi esistenti è anche la logica sottesa all’azione del taglia, copia e incolla che è criterio fondativo e misura definitoria del digitale. Se il digitale ha cambiato le nostre vite di certo la vita del digitale è stata totalmente stravolta da Lawrence Tesler con il “cut & paste” concretizzazione contestualizzata del concetto stesso di digitale o quanto meno di funzione del digitale stesso: incollare cose che si è sempre pensato fossero disgiunte e si scorporare cose che si è sempre pensato dovessero essere unite (presenza e partecipazione, per dirne una ed una soltanto).

Tesler partì dall’ idea di un sistema per trasferire parti di testo eliminando la necessità di riscriverlo ogni volta da capo e fu questo l’intento originario del primo “copia e incolla” ma lavorando sulla possibilità di estrarre e rimontare a piacimento una parte di testo, inventò e perfezionò i comandi e i tasti “taglia”, “copia” e “incolla” (“Ctrl+X” “Ctrl+C” “Ctrl+V”) sono il moderno e tecnologico ‘collage’ che abbiamo a portata di mano in ogni nostro computer.

Siamo partiti dalla moda per attraversare l’arte, la matematica ed il digitale. E’ tempo di tornare al punto di partenza in un ideale percorso circolare (mettila come vuoi, ma la matematica c’entra sempre) e di porci delle domande alle quali queste righe non hanno la pretesa di dare dare una risposta.

– La prossima disruption della moda sarà una nuova stagione di collage di bisogni, idee e necessità diverse?

– Potremo trovare nella moda, grazie alla digitalizzazione, una capacità nuova di unire cose tradizionalmente disgiunte e finalmente disgiungere cose che abbiamo sopportato, per troppo tempo, come un solido (i processi creativi, gli atti di acquisto …)?

Ai posteri (od ai poster, volendo rimanere nell’ambito dei collage per citare quelli “impliciti” di Jaques Villeglé) l’ardua sentenza.

Riccardo Bovetti